Friend-shoring per riorganizzare le economie occidentali senza rinunciare alla globalizzazione e non penalizzare la tecnologia e lo scambio di conoscenze
Il termine “friend-shoring” è stato usato lo scorso 13 aprile dalla segretaria al Tesoro americano Janet Yellen. Da allora è diventato un paradigma nuovo sul quale si misurano le mosse delle economie occidentali. Quel “fare business tra amici” è presto stato interpretato come un campo sul quale far muovere anche le imprese. Grandi o piccole che siano, e nella sua accezione più genuina non vuole dire rinunciare al valore della globalizzazione. Vuol dire rivederlo in questi tempi scossi dalla guerra, in un impegno a lavorare con paesi simili, pur sempre con le regole dell’economia globale.
Il capitalismo ha dimostrato di sapersi trasformare e adattare ai nuovi scenari geopolitici. Non può fermarsi nel 21esimo secolo, a questa considerazione è arrivata Oxford Economics. La società di analisi finanziarie britannica ha anche previsto che le tensioni crescenti, la spinta al ‘decoupling’, si riverbererà. I campi maggiormente attenzionati sono soprattutto quello della tecnologia e nello scambio di conoscenze che hanno caratterizzato i progressi globali compiuti sinora.
Quali sono gli impatti del Friend-Shoring?
Bisogna creare opportunità nuove e diverse per le aziende per evitare un impoverimento generale. Se prima le imprese si muovevano senza frontiere, adesso tornano i governi a stabilire i confini del friend-shoring. Il suo opposto, ovvero l’offshoring negli anni ha sviluppato fenomeni che già prima del conflitto avevano mostrato la corda. Il decentramento delle produzioni da parte delle multinazionali verso paesi a basso costo di manodopera, ad esempio.
Per questo il discorso di Janet Yellen ha offerto una visione di un ritorno a dinamiche industriali più rispettose del capitale umano interno. Le condizioni internazionali stanno accelerando una tendenza che era già in atto verso un’economia di prossimità. Lo conferma anche Maurizio Marchesini, vicepresidente di Confindustria per le filiere produttive. Dice “non è la fine della globalizzazione semmai è l’inizio di una nuova globalizzazione. Un tipo di globalizzazione che premia la stabilità e l’affidabilità dei paesi nei rapporti economici e commerciali con gli altri paesi”.
Come si pongono i sindacati a riguardo?
Per questo Confindustria, ma anche i sindacati sono pronti ad una discussione comune con il governo. Oltre alle dichiarazioni di principio servono anche misure che sostengano i processi. Per riaprire le produzioni in Italia e in Europa servono supporti dal governo. Per colmare il gap del costo della manodopera sui mercati del Far East, bisogna ridurre la tassazione sulle imprese e una politica di sgravi fiscali. Sono proprio i regimi fiscali europei e i costi ambientali che hanno favorito la delocalizzazione dell’industria.
Un segnale positivo, da interpretare come buon esempio è venuto dallo sforzo promosso dall’Unione europea di aumentare la produzione europea di semiconduttori. Con la legge che stanzia 11 miliardi di euro la produzione passerà al 20 per cento entro il 2030 dall’attuale 10 per cento.
Gli investitori finanziari considerano fondamentale anche avere il pieno controllo delle proprie catene di approvvigionamento. Serve anche intesa strategica tra le istituzioni finanziarie. Fmi e Banca mondiale devono parlare la stessa lingua. Per far si che questo accada va attuato un processo di riforma per affrontare le crisi geopolitiche in un quadro che può evolversi molto rapidamente. Motivo in più che ha fatto dire alla segretaria al Tesoro di Washington che è arrivato il momento di una nuova Bretton Woods.