Dopo aver affrontato la crisi della pandemia è iniziata la corsa delle under 35
L’imprenditoria al femminile può diventare un altro dei motori per la ripartenza e sono in particolare le under 35 a trainare la nascita di nuove imprese femminili nel primo trimestre del 2021. Il fenomeno è contenuto nei dati diramati a giugno dall’Osservatorio per l’imprenditorialità femminile di Unioncamere e InfoCamere: l’incremento dei numeri è netto, si nota rispetto alle iscrizioni registrate nei primi tre mesi del 2020 che le nuove imprese fondate da under 35 sono aumentate dell’8,1%.
All’inversione di tendenza viene attribuito un significato particolare, perchè solo fino a poco tempo fa le cose andavano in maniera opposta, c’era stata una caduta delle iscrizioni complessive di nuove attività guidate da donne registrata nel corso di tutto il 2020 ha spiegato Unioncamere: “torna comunque a salire lievemente nel primo trimestre 2021 anche l’indicatore principe della vitalità imprenditoriale: 26.299 le imprese femminili nate tra gennaio e marzo scorso, contro le 26.044 dello stesso periodo di un anno fa, il dato più basso dal 2015″. Secondo Unioncamere, questa crescita sia pure di piccola entità ha un grande significato simbolico, segna una prima svolta rispetto ai trimestri precedenti, anche se non raggiunge ancora i livelli degli anni passati. In questo lungo anno di pandemia, commenta Unioncamere “le giovani aspiranti imprenditrici si sono mostrate più resilienti delle over 35. Nel secondo e nel terzo trimestre 2020, infatti, le iscrizioni delle imprese femminili giovanili si sono ridotte in misura minore rispetto a quelle non giovanili (-38,6% contro -44,0% nel secondo trimestre, -3,7 contro -5,3% nel terzo), fino a tornare in positivo nei primi tre mesi del 2021”. Questo non toglie che siano le donne a pagare il prezzo più alto della crisi: “nel primo trimestre di quest’anno, infatti, l’incremento percentuale delle nuove imprese guidate da donne continua a essere inferiore in maniera significativa a quello delle imprese maschili (1% a fronte del 9,5%)”.
Allargando l’orizzonte verso l’intero sistema produttivo nazionale, a fine marzo, le imprese femminili hanno superato il milione e 330mila, pari al 21,97% del totale delle imprese. Lombardia, Lazio, Campania e Sicilia le regioni in cui si concentra il maggior numero di imprese guidate da donne. Molise, Basilicata e Abruzzo quelle in cui, invece, le imprese guidate da donne sono maggiori o pari a oltre un quarto del totale delle attività esistenti.
Ci sono poi alcuni strumenti normativi nuovi che stanno affiancando i contratti, La commissione Lavoro della Camera ha approvato all’unanimità la proposta di legge sulla parità salariale, che prevede tra l’altro la richiesta a tutte le aziende oltre i 50 i dipendenti di presentare una certificazione sulla parità di genere e quote di genere nei consigli di amministrazione anche delle società pubbliche non quotate, ampliando così le disposizioni della legge Golfo-Mosca. C’è poi legge regionale approvata a maggio nel Lazio che estende la parità salariale tra uomo e donna, considerato un passo importante per il sostegno all’occupazione delle donne attraverso l’istituzione di un registro delle imprese virtuose che intervengono non solo sulla disparità salariale, ma anche sugli altri aspetti organizzativi della vita lavorativa nelle aziende di ogni dimensione. Le imprese che vogliono intervenire sulla dinamica salariale al di fuori di quella regolata dai contratti possono avere un beneficio fiscale da parte della Regione nella prima annualità. Il Lazio si allinea così alla direttiva della Commissione europea sulla trasparenza per combattere il divario di genere, iniziativa promossa a ruota delle conseguenze che la pandemia ha avuto sul lavoro in un particolare momento storico che ha accentuato il gender gap non solo salariale tra uomini e donne nel mondo del lavoro. Secondo diverse rilevazioni le donne sono state più presenti nei settori che hanno vissuto la crisi maggiore come servizi e commercio e come secondo fattore le donne più degli uomini hanno avuto inquadramenti con contratti precari che dunque non hanno beneficiato del blocco dei licenziamenti, ma in diverse realtà sono finite in quella zona di lavoro sommerso, fatto di contratti a termine che non sono stati rinnovati.